L’identità del servizio pubblico nel nuovo ecosistema digitale

 

Massimo Scaglioni, professore di Storia, Economia-Marketing dei media all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e studioso di consumi mediali e televisivi, riflette, in una intervista esclusiva per il Telespettatore, sul ruolo del Servizio pubblico in uno scenario di competizione sempre più globale.

Professore, perché un libro sul servizio pubblico radiotelevisivo?

Per una ragione apparentemente contingente. Fra il 2016 e il 2017 in molti paesi europei il tema del servizio pubblico è tornato all’ordine del giorno. In Gran Bretagna, per esempio, dove nel corso del 2016 si è sviluppato un ampio dibattito in vista del rinnovo della Royal Charter, la convenzione che attribuisce alla BBC l’onere, e l’onore, di svolgere il public service broadcasting nel Regno Unito. O in Svizzera, dove un referendum minaccia di abolire il canone. E ovviamente in Italia, anche in questo caso per l’approvazione della Convenzione/Concessione con la RAI. E dove, per la verità, il dibattito sul servizio pubblico non viene mai meno: basti pensare ai recenti casi del tetto agli stipendi degli artisti e del cosiddetto “piano Verdelli” di ridefinizione della struttura produttiva dell’informazione. Ma, al di là delle contingenze, penso due cose: che mai come oggi avremmo bisogno di un buon servizio pubblico, e che mai come oggi il servizio pubblico è sotto attacco, perché si pensa che non ce ne sia bisogno. Il libro nasce così con un intento quasi pedagogico (per quanto possa fare un libro): spiegare cosa è stato, cosa può essere il servizio pubblico, e perché è importante riformarlo ma anche difenderlo.

In una contemporaneità complessa, nella quale ogni azione sembra orientata intorno a logiche funzionali e di mercato, ha ancora valore parlare di servizio pubblico?

Assolutamente sì, proprio perché la realtà è sempre più complessa abbiamo bisogno di strumenti per comprenderla meglio. Per queste ragioni è nato il servizio pubblico, nei lontani anni Venti del Novecento, in Gran Bretagna. Oggi le caratteristiche del sistema mediale, e della cultura più in generale, sono diverse da cent’anni fa. Ma un’istituzione come il servizio pubblico è ancora più importante. Potremmo fare molti esempi, in molte aree di genere. La più ovvia è quella dell’informazione. Nell’epoca della “post-verità”, dove tutto sembra vero (o falso), il servizio pubblico dovrebbe sviluppare un’informazione credibile e autorevole destinata a tutti. Purtroppo non in tanti leggono i giornali, e una parte consistente della popolazione si informa solo attraverso la TV. Una presenza di un buon servizio pubblico è più che mai necessaria. Purtroppo questo è anche l’esempio più dolente, se si confronta il servizio pubblico nazionale con quello di altri Paesi: sul piano dell’informazione, la RAI non ha mai saputo coltivare grande autonomia dal potere politico. E poi ci sono altre aree su cui il servizio pubblico è necessario. Persino nell’ambito di genere più leggero, l’intrattenimento. Perché in questo caso il servizio pubblico dovrebbe fare da volano per una produzione di contenuti nazionali, possibilmente di buon livello “linguistico” (intendo, innalzando il livello “linguistico” della televisione in generale, anche della concorrenza).

La Rai degli ultimi anni sembra sempre più appiattirsi sui processi di una televisione commerciali. Lo si evince dalla proposta dei suoi contenuti, sempre più “similari” ai network privati? Secondo lei, possiamo parlare di una sorta di “pensiero unico radiotelevisivo” indipendente dalle finalità delle singole emittenti?

Purtroppo il “duopolio” RAI-MEDIASET degli anni Novanta e dei primi anni Duemila ha reso molto simili la tv commerciale e quella di servizio pubblico, anche se delle differenze importanti sono rimaste. Lo sforzo di costruire un buon servizio pubblico è molto arduo, molto più difficile che costruire una tv commerciale. Perché il servizio pubblico deve cercare al contempo di essere popolare e di qualità. Ma nella storia della RAI ci sono buoni esempi, sia prima della fine del monopolio che dopo. Dunque l’alchimia è possibile. Però la RAI dovrebbe lavorare oggi soprattutto sulla sua differenza dalla tv commerciale. Il caso del contenitore pomeridiano condotto da Paola Perego è stato così clamoroso perché quel contenuto, sebbene di cattivo gusto, poteva rientrare nelle logiche di una tv commerciale, ma risultava del tutto inaccettabile per il servizio pubblico, che dovrebbe lavorare sull’inclusione, sul superamento dei più vieti stereotipi, e non alimentarli. Dunque, la missione della RAI per i prossimi anni è lavorare sulla differenza, pur non uscendo dal mercato, ovvero non perdendo la sua centralità, la sua popolarità. La RAI ha un grosso aiuto, che è il canone, e ha il dovere di farlo fruttare al meglio.

L’ultimo polverone che ha caratterizzato la Rai riguarda la sospensione del programma Parliamone…sabato condotto da Paolo Perego? È stato giusto chiuderlo? Non sarebbe più significativo che autori, capostruttura, redattori proiettassero le loro storie su contenuti più aderenti alla mission del servizio pubblico?

Ho già anticipato la risposta, Dico sì, è stato giusto chiudere il programma. Quel contenuto era del tutto lontano dalle logiche di un servizio pubblico. Ovviamente non è un caso isolato e bisognerebbe vigilare su casi analoghi. Anche se la cosa più sconvolgente non è stato il contenuto in sé, ma il fatto che nelle catena di comando (da capistruttura fino agli autori) nessuno si sia accorto che era meglio fermarsi, che qualcosa non andava. Viene da riflettere sui modi in cui i professionisti vengono selezionati. Anche qui c’è un impegno per la Rai del prossimo futuro: tornare a selezionare il meglio. E’ finito il tempo dei professionisti-improvvisati. Per il servizio pubblico ci vuole grande competenza e grande responsabilità.

L’Aiart, la storia associazione del telespettatori da qualche tempo ha aggiunto al suo storico acronimo l’espressione “cittadini mediali”. Ci sentiamo sempre più cittadini, ovvero non semplici fruitori di narrazioni proposte da media, ma anche produttori, “spettAttori e spettAutori. Come “legge” e interpreta il nuovo scenario mediale sempre più rimodulato dalle pratiche e dai formati del digitale come la partecipazione, la condivisione, la convergenza?

Il nuovo ecosistema mediale apre una varietà di possibilità a tutti noi: non più semplicemente fruitori passivi, ma sempre più partner attivi della comunicazione mediale. Anche se non possiamo farci illusioni: il mondo dell’orizzontalità comunicativa, della rete, dei social non è sempre sinonimo di “bene” e di “responsabilità”, anzi. Occorre una competenza diffusa sul miglior uso dei media digitali, e occorre che i media più tradizionali (come la televisione), cui resta un ruolo chiave di comunicazione più “verticale”, svolgano il loro ruolo con responsabilità.