Bufale: alcuni elementi del fake newsmaking

(di Vincenzo Marinelli) Vorrei ancora una volta proporre una riflessione sul fenomeno bufale, auspicando che possa nuovamente aiutare il lettore a possedere quelle literacies, cioè quell’alfabetizzazione, quelle competenze mediali sempre più necessarie innanzitutto per una sana fruizione dei contenuti e delle informazioni con le quali viene a contatto navigando nel web o servendosi dei social, e, in secondo lungo, per una sapiente comunicazione affinchè non diventi anch’egli vittima e poi carnefice, distributore semi-automatico di catene, o notizie allarmanti ecc..

Dopo le precedenti riflessioni, in cui abbiamo esaminato le dinamiche che ingenerano le bufale nel contesto mediatico (Bufale: l’informazione al tempo della post-verità) e aver proposto un’analisi dei processi antropologici in gioco (Bufale: quale conversazione può generare l’umanità mediale?), alla luce della convinzione che è sempre l’uomo a ricoprire un ruolo attivo anche nella comunicazione che è generata nel web (Ceretti – Padula, Umanità mediale 2016), desidero proporre una lettura critica del fenomeno come processo di fake newsmaking, ovvero come un processo alterato di produzione di informazioni.

Definire le bufale come fake news non è una novità, ma porre attenzione sul processo di newsmaking (produzione delle notizie) ci permette invece di sviluppare una capacità critica su noi stessi e sui nostri processi comunicativi (dimensione umana) e sulla loro diffusione nei media (dimensione mediale).

Parto dal presupposto che le bufale siano notizie e come tali anch’esse per diffondersi devono sottostare ai criteri di produzione delle notizie, in particolare a quelli riguardanti il contenuto.

Perché una notizia ci cattura? Perché dice qualcosa di noi, legato ai nostri interessi. Questa notizia diviene condivisa, trasformandosi da informazione a comunicazione e attivando un processo relazionale, quando è giudicata significativa anche per gli altri, o per una stretta cerchia di persone di cui siamo a conoscenza.

Sul web alcuni siti forniscono non solo informazioni circa la veridicità di alcune informazioni o la loro smentita, indicando gli elementi mancanti o contradditori, ma offrono anche un “tagging”, un etichettamento, una categorizzazione della tipologia di bufale. Attraverso queste etichette il fenomeno assume una fisionomia più concreta e specifica e si riduce l’effetto qualunquista che fa gridare “al lupo al lupo” dinanzi a qualsiasi notizia.

Alcune bufale sono etichettate come “allarmismo”, o altre come “truffe” ecc.. Perché le bufale hanno proprio questo genere letterario? Perché, a differenza delle quotidiane notizie di cui veniamo informati, esse devono avere dei contenuti di forte interesse per i destinatari. Dunque le bufale avranno un elemento geografico sensibile: l’asteroide che colpisce la terra, le scuole della “regione” (non precisata). Altro aspetto è un atteggiamento diffuso o un prodotto sul mercato, dunque la quantità delle persone in esso coinvolte: l’acqua intossicata, il buono o lo sconto fornito da un’azienda, alcune applicazioni diffuse negli smarthphone ecc.. Altro elemento sono le situazioni impreviste e drammatiche che sollevano un interesse umano: la donazione del sangue, le calamità naturali, oppure che riguardano furti, salute e possibili danni personali ecc. Ovviamente non è possibile qui fornire un’analisi dettagliata degli elementi possibili, ma è sufficiente la presenza di questi elementi per insospettirsi e attivarsi nella ricerca della fonte per verificarne la sua attendibilità, soprattutto quando c’è un quarto elemento: l’invito alla diffusione. Ovviamente affinché la fonte sia attendibile non è sufficiente rintracciare la notizia su un qualunque sito internet o un post su un social network. È importante verificarla con le agenzie di stampa e sui siti ufficiali degli enti o delle aziende coinvolte. Spesso le bufale omettono la citazione delle fonti per impedirne la verificabilità, inoltre, oltre agli aspetti già esaminati nelle precedenti analisi, alcune di esse proliferano anche a causa di un sotteso pregiudizio culturale secondo il quale le agenzie di informazione e dunque gli uomini che di esse si servono, possano tacere informazioni preziose che, se diffuse, ne danneggerebbero l’immagine.

Ci auguriamo che queste analisi anche se non potranno impedire il processo di fake newsmaking, tuttavia ci rendano più critici e attenti, sviluppando una nuova competenza dell’umanità mediale: il well-advised newsending (saggio processo di diffusione delle notizie).