La famiglia di fronte ai media. Alcune riflessioni sulle relazioni familiari

In questo saggio, Francesco Belletti, Direttore Cisf (Centro Internazionale Studi Famiglia), ex Presidente del Forum delle associazioni familiari e docente dell’Università la Cattolica e della Pontificia Università Santa Croce, riporta alcune riflessioni sulla rappresentazione della famiglia contemporanea nei media.Dal nr. 37 di gennaio 2016 della rivista trimestrale dell’Aiart la Parabola..

Francesco Belletti - La famiglia di fronte ai media. Alcune riflessioni sulle relazioni familiari Francesco Belletti – La famiglia di fronte ai media. Alcune riflessioni sulle relazioni familiari

LA FAMIGLIA DI FRONTE AI MEDIA. ALCUNE RIFLESSIONI SULLE RELAZIONI FAMILIA


di Francesco Belletti

La famiglia esposta dai media
“Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Questa massima tradizionale descrive con grande precisione la situazione della famiglia nella comunicazione contemporanea; famiglie in rovina, maltrattanti, in grave difficoltà, occupano costantemente i mezzi di comu¬nicazione, che forniscono così una rappresentazione della famiglia contemporanea incentrata pressoché esclusivamente sulle zone d’ombra, e in cui anche la molteplicità di condizioni, di “modelli familiari” e di storie familiari viene considerata un dato positivo, un indicatore di modernità, o addirittura di “post-moderno”, contro quel luogo di prevaricazione e di scandalo che è la famigerata “famiglia tradizionale”.

Questa è una riflessione però abbastanza scontata, perché per molti ha ragione Lev Tolstoj quando, all’inizio di Anna Karenina, dice che “Le famiglie felici sono felici tutte allo stesso modo, le famiglie infelici sono infelici ognuna a modo suo”, e quindi solo queste sono storie che possono essere raccontate, proprio perché uniche. Io credo invece che ogni famiglia abbia il suo romanzo familiare da raccontare, anche perché le cosiddette “famiglie felici” (che non sono quelle del Mulino Bianco, che sono anch’esse, ricordiamolo, “invenzione” di quel mondo), sono invece storie di fatiche e di successi, di gioie e di dolori, di sofferenze, tradimenti e perdoni; la sfida che lancio è questa, ai nostri sceneggiatori: raccontate il romanzo della novità della normalità!

Ma vorrei sottolineare un secondo aspetto di questa “famiglia esposta” sui media: in particolare mi riferisco a quella che può essere definita come una vera e propria invasione, se non addirittura di colonizzazione, della sfera privata da parte dei mass-media, che è una vera minaccia all’integrità della dignità della persona. La società contemporanea sembra affermare che la comunicazione sia al di sopra di qualsiasi regola: tutto si può comunicare, tutto si deve comunicare, tutto è pubblico, tutto è disponibile. Ciò che non può essere comunicato, secondo la nostra società, è quello che appartiene alla nostra privacy. Il termine privacy, in realtà, fa riferimento alla sfera giuridica, alla definizione di tutela dell’individuo come azione di difesa di uno “spazio vitale” della singola persona: i recenti eventi ce ne hanno dato ampia dimostrazione.

Le riflessioni sulla società della comunicazione devono inoltre tenere conto non solo della televisione, ma di tutto il contesto comunicativo entro cui siamo immersi, che in genere si muove sull’idea che tutto sia “macinato” dall’industria della produzione della notizia, e che in questa prospettiva qualunque cosa possa essere raccontata, per esempio l’intervista alla vedova di un poliziotto appena assassinato, alla quale un giornalista sei ore dopo la morte del marito chiede: “Ma Lei perdona?”, con telecamera, microfoni e riflettori puntati. Questo sarebbe giornalismo? Questa è televisione verità? Questa è semplice violenza. Non c’è una notizia, non c’è un vero “racconto” dietro questo approccio, c’è solo il sensazionalismo delle lacrime e del dolore, esposto senza pudore né rispetto. E’ un’ulteriore violenza, da parte di un potere prevaricante, ai danni di una persona che diventa due volte vittima: vittima dell’evento tragico, e nuovamente vittima dello sfruttamento che subisce davanti ai mass media.

Ho anche l’impressione che oggi, nel turbolento sviluppo del sistema dei media, sia sempre più difficile immaginare una buona televisione, una buona comunicazione; per esemplificare, credo che non ci potrà mai essere un “Porta a porta” sulle buone notizie, perché le dinamiche e la grammatica di tanta comunicazione sono più semplicemente applicate e agite su fatti eclatanti, sulle drammaticità del male, sulla denuncia di ciò che non funziona… perché rimane vero che “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce…”, ma non è solo così, magari fosse solo che i grandi casi eclatanti attirano attenzione!

Infine, un altro aspetto fondamentale da ricordare è che nella comunicazione, oggi sempre di più, è in gioco il potere; c’è in gioco una relazione asimmetrica tra le persone e i produttori di informazione, e il potere, in genere, usa i mezzi di comunicazione per controllare le persone. Non dobbiamo nascondercelo, dobbiamo ricordarcelo, perché c’è in gioco la protezione della dignità, dell’integrità e dell’inviolabilità della persona di fronte al potere.

Possiamo e dobbiamo quindi combattere le nostre battaglie di presidio, di difesa, magari proviamo a generare sperimentazioni di buona comunicazione, soprattutto nei nuovi media, più plurali, ma accettiamo anche che alcuni spazi siano come minimo più complessi.

Governare la relazione con i mezzi di comunicazione, educare una libertà responsabile
Qui passiamo al tema della famiglia esposta “ai” media. Questi aspetti di protezione e controllo da parte dei destinatari del messaggio sono ampiamente trattati in ambito massmediale; di fatto la dinamica prevalente è che i consumatori (le famiglie) si lamentano di programmi cattivi, minacciosi, volgari (soprattutto nei confronti delle giovani generazioni , mentre chi produce comunicazione difende la propria libera creatività, aggiungendo inoltre: “dovete pensarci voi” (potete cambiare canale, dovete controllare quello che guardano i vostri bambini, ecc.); questi siparietti sono ricorrenti nei comitati di tutela, negli organismi di controllo, nelle varie Autority, dove chi fa televisione di fatto chiede “mani libere”; mi pare un percorso analogo a quello dibattuto rispetto alla libertà di ricerca nella scienza: è oscurantista, medioevale, invoca criteri etici, morali, che governino e controllino la libertà della ricerca scientifica.

E’ vero proprio il contrario: tutti gli uomini veramente liberi riconoscono che ogni sapere non è padrone di se stesso, che le cose non sono buone di per sé, ma servono a qualcosa d’altro e anche la scienza serve a un progetto e ad un’idea di uomo, e non puoi dire: “io continuo a studiare finché scopro come si distrugge la terra, e siccome l’ho scoperto, ho fatto bene ad andare fino in fondo”. Io invece pretendo che ci si fermi prima, che questa assenza di limiti sia contenuta e limitata da alcuni valori (inviolabilità di ogni persona umana, o conservazione del mondo e del genere umano, ad esempio…); ma questo non mi sembra un ragionamento oscurantista, anzi, mi sembra un ragionamento per lo meno con un’idea di futuro.

Oggi non possiamo governare la relazione con i mezzi di comunicazione solo con modalità di controllo preventivo, con la “censura” (spesso ancora opportuna, peraltro): non possiamo limitarci a dire la RAI o Mediaset devono programmare delle buone trasmissioni, perché dobbiamo governare una multimedialità infinita, la tv dei 1000 canali, internet.

Dobbiamo cioè, con uno slogan, “consentire ad una libertà fragile di esercitarsi responsabilmente”; nei confronti dei nostri figli, ad esempio, non possiamo pensare di spegnere il computer (e con esso i collegamenti con Internet), perché ormai fa parte della loro vita quotidiana, ci fanno i compiti, ci parlano con gli amici, ci leggono le notizie; certo, lo usano in sala, in uno spazio comune, cioè, “dove tutti possono vedere”, non in camera loro, e questo è già un aiuto, ma lo usano anche quando non ci sono adulti, e certe volte mio figlio ci si prepara gli esami di fisica sul computer, altre volte ci passa due ore a giocare al solitario di carte, altre volte naviga dove? Sarà ben lui che si governerà, io posso solo accompagnarlo.

Quindi dobbiamo evidentemente educare una libertà responsabile e non governare e controllare un cortile protetto; possiamo pretendere alcuni spazi protetti, però contemporaneamente dobbiamo aiutare una responsabilità che si sviluppa e accompagnarla, non lasciarla sola.

Una responsabilità personale e familiare che va allenata, sostenuta ed educata
Il messaggio di Benedetto XVI in occasione della 41.a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali fin dal titolo (I bambini e i mezzi di comunicazione: una sfida per l’educazione, 2007) mette al centro l’educazione come esperienza essenziale e “drammatica” (una sfida, appunto) dell’umano, che proprio in famiglia, nella relazione genitori-figli, trova il primo e irrinunciabile ambito di esperienza: è vero che, nelle parole del Pontefice, “educare i bambini ad essere selettivi nell’uso dei media è responsabilità dei genitori, della scuola e della Chiesa”, ma “il ruolo dei genitori è di primaria importanza”, e nel “diritto e dovere di garantire un uso prudente dei media… i genitori dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti dalla scuola e dalla parrocchia…”; si riafferma quindi, in questa prospettiva, che la titolarità della responsabilità educativa spetta primariamente alla famiglia, in una concreta esplicitazione del principio di sussidiarietà, e le altre agenzie devono prima di tutto supportare, sostenere e promuovere le competenze educative dei genitori, con una esplicita loro responsabilizzazione, e sostituendoli solo quando la famiglia viene meno a questa responsabilità educativa.

Anzi, questa sottolineatura della responsabilità della famiglia non può essere usata per scaricare le responsabilità di chi fa comunicazione di massa; troppo spesso, nei vari comitati di tutela degli utenti e dei minori, questa è l’argomentazione addotta da chi produce comunicazione di massa: “È la famiglia che deve vigilare”. Ma non basta, perché se occorre essere responsabili di ciò che si dice nella comunicazione in famiglia, quanto più lo si dovrà essere quando si usano parole, immagini e contenuti che influenzano la vita di migliaia o milioni di persone? Perché pretendere di poter agire liberi da quella responsabilità che il peso delle proprie azioni comunicative certamente ha? Risuonano nuovamente le parole del messaggio di Benedetto XVI: “Faccio nuovamente appello ai responsabili dell’industria dei media, affinché formino e incoraggino i produttori a salvaguardare il bene comune, a sostenere la verità, a proteggere la dignità umana individuale e a promuovere il rispetto per le necessità della famiglia”. Del resto la famiglia educa perché non può farne a meno, perché vive di relazioni, di reciprocità, di corresponsabilità. In questo senso ritorna decisiva una frase di Giovanni Paolo II, in occasione della 38. Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (23 maggio 2004): “La statura morale delle persone cresce o si riduce a secondo delle parole che esse pronunciano e dei mezzi che scelgono di ascoltare”. (FEUERBACH: L’UOMO è Ciò CHE MANGIA)

Questa indicazione interessa la qualità stessa dell’esperienza familiare, che è inevitabilmente intessuta di comunicazioni, di relazioni tra persone, di domande di senso, di cura reciproca, di appartenenza. Se la comunicazione in famiglia è vera, viva, dinamica, attraversata da significati, da domande vere, da risposte non formali, allora la “statura morale” delle persone di quella famiglia verrà lentamente ma stabilmente costruita da questo costante incontrarsi, da un “guardarsi negli occhi” che va al fondo della persona. Una famiglia così sarebbe certamente capace, poi, anche di accogliere quell’ospite fisso che è la televisione, accogliendo quanto di buono vi si trova e rifiutando i messaggi negativi, gli stereotipi, o i falsi modelli e ideali che spesso sono proposti.

Occorre cioè ricordare che ogni comunicazione costruisce un legame, una relazione tra le persone; la qualità di questo legame dipende però dal modo, dai contenuti e dal linguaggio scelto: spetta quindi a ogni “comunicatore” la responsabilità di produrre legami buoni.

Un’altra modalità di essere protagonisti e responsabili “da famiglie”, di fronte ai media, è una “apertura dei confini familiari ad altre persone e famiglie”; le famiglie insieme possono darsi molte informazioni e molte dritte, comunicarsi strategie efficaci di contenimento, oltre che rischi di dipendenza e difficoltà di gestione.

Nei confronti dei media in famiglia, occorre promuovere occasioni anche piccole, banali, di scambio di esperienze, informali, valorizzando ad esempio la “sala della comunità”, che può e deve essere usata anche come spazio di “incontro tranquillo”, dove ci si possa vedere in piccoli gruppi, tre o quattro famiglie, magari senza neanche un esperto, per provare a vedere un pezzo di film insieme, oppure anche i cartoni animati della normale programmazione pomeridiana, e poter poi discutere insieme, ragionarci, con gradualità, aiutati ma anche senza “tecnici”.

A livello associativo (un ulteriore livello di responsabilità familiare, la costruzione di un soggetto sociale tramite l’associazionismo) c’è infine un mandato forte; le famiglie sono ancora “senza voce”. Le famiglie oggi dovrebbero usare di più le mail di protesta, i fax, le telefonate ai numeri verdi per far sentire i propri giudizi; solo così potrebbero avere più peso, e paradossalmente renderebbero anche un servizio a chi produce i programmi, comunicandogli direttamente cosa pensano le famiglie (senza costringerli a fare una ricerca su come le famiglie apprezzano la programmazione televisiva…).

Dobbiamo cioè ri-costruire un meccanismo di partecipazione delle famiglie all’interno dei media, altrimenti il rischio è quello di avere dei sindacalisti specializzati delle famiglie, dei rappresentanti “delegati” che si impegnano dentro il mondo dei media, ma senza una chiara e diretta rappresentatività.

La famiglia potrebbe produrre anche nei confronti dei media una “cittadinanza attiva”, cioè una nuova partecipazione da cittadini alla costruzione del bene comune, attraverso l’interazione con una parte essenziale della nostra società, quale è la società dell’informazione; in questa prospettiva, infatti, essere cittadini attivi non significa diventare candidati alle politiche o parlamentari, o dirigenti di chi fa radio o televisione, ma significa essere nel vivo delle dinamiche sociali e far sentire la propria voce, da consumatore “attivo”.

Il protagonismo sociale delle famiglie non potrà essere regalato da nessuno; solo le famiglie potranno conquistarselo ed è questa la sfida di questi anni, da cui dipende non solo il futuro dei media o delle quotidianità delle famiglie, ma anche la qualità complessiva di vita e di libertà del nostro Paese.

Ma quest’ultima richiesta esige che le famiglie “…devono crescere nella coscienza di essere “protagoniste” della cosiddetta “politica familiare”, ed assumersi la responsabilità di trasformare la società; diversamente, le famiglie saranno le prime vittime di quei mali, che si sono limitate ad osservare con indifferenza” (FC, n. 44).