«Cuties» & gli altri: le domande (scomode) della tivù

Avvenire 27 settembre 2020

I consensi al festival Usa del cinema indipendente, poi la diffusione in tutto il mondo su Netflix, infine le polemiche per scene da molti giudicate volgari: nato per denunciare la sessualizzazione precoce delle preadolescenti, il film ha acceso un confronto che «Avvenire» fa suo e rilancia con le voci di Giovanni Baggio (Aiart), del critico tv Andrea Fagioli, del semiologo Armando Fumagalli e della psicologa Cecilia Pirrone

È un film che pone domande serie in modo spigoloso ma efficace, occasione per dibattiti da cineforum? Oppure siamo di fronte un’opera eccessiva e smaccatamente volgare, che è meglio evitare? Appena diffuso il 9 settembre da Netflix per i suoi abbonati, Cuties (o Mignonnes, titolo originale francese della pellicola diretta dalla regista franco-senegalese Maimouna Doucouré) ha sollevato questioni di linguaggio e sostanza che vanno oltre l’opera in sé, spingendo a chiedersi come affrontare la sovrabbondante offerta televisiva di film e serie tv accessibili anche da smartphone e che sempre più spesso presentano contenuti problematici. «Avvenire» ha messo a confronto in un forum online quattro esper ti di televisione, cinema e adolescenza, tutti con una esplicita vocazione educativa, in dialogo con tre giornalisti del quotidiano (Massimo Calvi, Antonella Mariani e Francesco Ognibene). Eccone il resoconto.

Avvenire. Qual è il vostro giudizio su Cuties e i temi che affronta?

Fagioli. «È comprensibile la reazione polemica che c’è stata in giro per il mondo alle immagini un po’ ambigue e pruriginose di Cuties fatte circolare da Netflix per promuovere il film. Quello che non capisco è che non si sia accettato di distinguere le immagini e strapolate e decontestualizzate dal prodotto in sé: la stragrande maggioranza di chi ha contestato il film, anche pesantemente, credo che non l’abbia proprio visto. L’ho rivisto e studiato sequenza per sequenza, e va detto che non è certo un capolavoro: ci sono luoghi comuni, banalità, semplificazioni. Però è un film corretto, e tutt’altro che furbescamente orientato a sfruttare la sessualizzazione delle ragazzine. È fatto di contrapposizioni e di reazioni. Basti pensare all’inizio e alla fine: nella prima inquadratura Amy piange, così come farà interrompendo il tanto contestato balletto; l’immagine conclusiva invece è di Amy che gioca, salta la corda, e ride. La pellicola si gioca tra questi due opposti, come opposte sono le immagini della donna (oggetto o soggetto) o del corpo (penalizzato o esaltato). Delle ragazzine del film conta, soprattutto, il contrasto tra l’essere bambine e ciò che è al di sopra e al di fuori di loro. Amy fa tutto per reazione, vuole affermare se stessa come donna, anche con i gesti più controversi. Però resta una bambina, e quando ne riprende coscienza corre dalla mamma per abbracciarla. Ma per arrivarci serviva una rottura: solo allora accetta felicemente di essere ciò che è».

Avvenire. Nella recensione apparsa su Avvenire del 16 settembre parli di film «educativo», un’aggettivazione usata poi nel titolo – opera della redazione – che è stato molto contestato. Alla luce del dibattito e delle critiche, useresti ancora lo stesso termine?

Fagioli. «Lo userei con l’intenzione che ho messo nell’articolo. Anzitutto il film non va fatto vedere a tutti, Netflix stessa lo vieta ai minori di 14 anni, il massimo del limite rimasto. Sono convinto che letto e presentato correttamente può diventare un film “educativo” nel senso di fornire elementi utili a chi si occupa di educazione. Senza queste condizioni, qualunque film può diventare negativo».

Baggio. «Il problema che Aiart ha sollevato è legato al pubblico di Netflix, che sfugge a qualsiasi mediazione per il tipo di canali tramite i quali accede ai contenuti. La messa in onda su una piattaforma di streaming video e i trailer del film inducono a pensare che l’educazione non fosse certo la prima preoccupazione di chi ha realizzato e diffuso questo prodotto. È decisivo interrogarsi sulla finalità dell’operazione:
se Netflix avesse voluto aprire un dibattito su questi temi – l’infanzia rubata, l’adolescenza precoce, la rincorsa di una certa immagine pubblica del proprio corpo – avrebbe dovuto presentare il film in modo molto diverso. I temi ci sono, interessanti e capaci di suscitare reazioni, ma l’intenzione della piattaforma cambia tutto. Sono rimasto anche deluso dal percorso del personaggio di Amy: non vedo una parabola ma un vicolo cieco, quasi la condanna a restare nella sua condizione infantile, senza via d’uscita né emancipazione. O si è esplosive oppure è meglio tornare nel proprio nido, in una condizione priva di sviluppi nel rapporto con il mondo, gli adulti e se stesse. È la storia in sé che mi lascia perplesso: al di là delle scene, sulle quali possiamo discutere, non sembra esserci spazio per una evoluzione “normale”»…….. Continua a leggere su avvenire.it