Scorsese e i suoi “silenzi”: tra interrogativi e speranza

(di Marco Ghiazza) Quando è terminata la proiezione, la sala è rimasta in silenzio per alcuni minuti.

Siamo usciti dal cinema in uno strano ed inusuale clima di raccoglimento e solo dopo qualche momento ciascuno ha iniziato, con gli amici con i quali aveva condiviso la visione del film, ad esprimere le sue impressioni.

Sì: il silenzio è anzitutto la reazione che questo spettacolo provoca in chi lo guarda. Un silenzio pieno di interrogativi; il silenzio di chi si sente accompagnato verso una ricerca: del significato, del messaggio dell’opera stessa, evidentemente; ma pure delle possibili provocazioni che possono raggiungere lo spettatore, la sua vita interiore, la sua esperienza religiosa.

Non ho le competenze per presentare un commento puntuale delle caratteristiche tecniche di “Silence”, ultimo regalo, in ordine di tempo, del Premio Oscar Martin Scorsese.

Non ho letto il romanzo dal quale è stata tratta la sceneggiatura; forse può essere di aiuto per dare la giusta interpretazione a ciò che viene descritto dal film.

È pur vero che vi sono alcuni elementi tecnici – penso soprattutto alla fotografia ed alla scenografia – che non potranno sfuggire, per la loro grande qualità, neppure ad uno spettatore distratto.

Mi permetto perciò di collocare queste righe più in un registro di risonanza che non di analisi la quale, appunto, richiederebbe ben altre capacità.

La domanda che mi ha accompagnato è stata soprattutto legata alla ricerca del collegamento tra il titolo e la trama: di chi è questo “Silenzio”? Del pubblico, come accennavo sopra?

A chi si riferisce questa parola?

E con essa, l’autore del libro prima ed il regista poi, quale reazione vogliono suscitare?

Il silenzio di Dio pare essere il protagonista di questa vicenda.

Un Dio che appare indifferente alle fatiche e ai drammi di coloro che soffrono proprio a causa della loro fede, della loro fedeltà a Cristo e al suo Vangelo. Un Dio apparentemente sordo, nel Giappone del XVII secolo come secoli prima sul Calvario, al grido di abbandono di coloro che subiscono una morte ingiusta.

È un silenzio opprimente, perché la manifestazione del male, della violenza, della prepotenza suscitano, nel cuore e nello stomaco dello spettatore un’istintiva rivolta.

Ma non è questo, a mio modestissimo giudizio, l’unico silenzio descritto da Scorsese.

Vi è il silenzio che circonda, almeno a livello di pubblica opinione, tutta la vicenda dell’evangelizzazione dell’Oriente e soprattutto il nodo della persecuzione religiosa. Una questione che, purtroppo, non riguarda i libri di storia ma i racconti di cronaca, in varie parti del mondo.

È il silenzio della nostra distrazione e dell’indifferenza nei confronti di un fenomeno che coinvolge molte, troppe chiese sparse nel mondo.

Vi è, per contro, la testimonianza silenziosa (una forma di “silenzio virtuoso”) di una comunità di credenti che custodisce una fedeltà ammirevole alla Parola, alla preghiera, al Battesimo (unico sacramento conferito da coloro che guidano le comunità prima dell’arrivo dei Gesuiti).

È il silenzio dei martiri, rotto solo da un dolce ed insistente canto di lode, mite preghiera nell’ora della testimonianza suprema. Questa “Chiesa del silenzio” troverà altre manifestazioni nella storia, anche recente e sempre saprà mostrarsi straordinariamente feconda.

È il silenzio che permette alla vita (prima e più che alla parola) di mostrarsi nella sua evangelica bellezza. Le uniche parole pronunciate dai fedeli descrivono la speranza e la sete di eternità di quel popolo e, a loro volta, causeranno il silenzio di quei Padri, costretti a ridimensionare le loro iniziali “ansie da prestazione teologica” tese a correggere prima che a condividere e soprattutto indifferenti rispetto alla sapienza che quel popolo aveva maturato a prezzo di grandi sofferenze e privazioni.

Vi è pure il silenzio dei Padri, conseguenza di quel processo di apparente inculturazione e di amarissimo compromesso. È il silenzio di chi sembra rinnegare, di chi rinuncia alla sua identità e così si preclude ogni opportunità di annuncio. È il silenzio dell’imbarazzo, della paura, della vergogna. Un silenzio, ancora una volta, difficile da sopportare anche perché vissuto da coloro che, per buona parte del film, sembrano mostrare una fortezza frutto di un lungo percorso di conversione, nell’appartenenza ad una delle più vivaci famiglie religiose della Chiesa. È il paradossale silenzio di coloro che erano stati accolti come maestri e che finiscono per autogiustificarsi a partire da una esperienza di incarnazione “interessata”.

Vi è pero, pure un altro, ultimo silenzio. È quello di chi guarda il film e, davanti alla scena finale e ad una delle ultime inquadrature (la mano che stringe il Crocifisso poco prima della cremazione), capisce che non è praticamente mai possibile esprimere un giudizio sulla vicenda di fede di un fratello o di una sorella.

Si resta in silenzio, tra lo stupore e la consolazione, tra gli interrogativi e la speranza. Come si prega durante la Messa: Tu solo, Signore, hai conosciuto e conosci la fede. Non ci è dato di conoscere ciò che abita la profondità di ciascuna coscienza. Ma, nel silenzio, crediamo che questa ignoranza non ci apra al tormento ma alla fiducia: l’altro è sempre di più (e, spesso, è meglio) di ciò che posso sapere e capire di lui. Capire questo significa provare a vivere un silenzio accogliente e rispettoso della vicenda umana e spirituale di ciascuno.